Pemio Nazionale di Poesia e Narrativa dedicato alla Bicicletta e al suo mondo

Sfiorando l'eterno in bicicletta: Paolo Rumiz per Il Bicicletterario

Paolo Rumiz con parte dello staff de Il Bicicletterario
Non ha certo bisogno di presentazioni, Paolo Rumiz. Col suo stile asciutto, fotografico, elegante, ha fatto e continua a fare la storia del miglior giornalismo italiano.
Classe '47, triestino, scrive per Il Piccolo e per Repubblica. Narra, diremmo, con quel suo taglio peculiare che ci porta a vivere le storie e le situazioni insieme a lui, non soltanto di fatti e accadimenti, ma soprattutto del vissuto e dell'umanità che essi contengono, e dei luoghi che li ospitano. Un giornalismo 'letterario', che riserva anche un piacere estetico. Uno scrittore, dunque, che trova nella vita scoperta attraverso la semplicità di uno sguardo senza filtri la materia prima del proprio raccontare.
"Appassionato viaggiatore di viaggi lenti e consapevoli, effettuati a piedi o con mezzi di fortuna, indagatore delle terre di confine e dei luoghi dimenticati, ha percorso itinerari sconosciuti al turismo di massa, soprattutto nell'Est europeo, nel profondo Nordest italiano, lungo il fiume Po", leggiamo alla voce della Treccani a lui dedicata. Oggi ci aggiungiamo l'Appia, il cui percorso, riscoperto a piedi, ha dato vita al volume omonimo di recente pubblicato per Feltrinelli (suo editore di elezione).

Dal suo viaggio in bici a Istanbul, in compagnia del vignettista Altan e di Emilio Rigatti - Presidente Onorario della nostra Giuria - nacque Tre uomini in bicicletta, resoconto di quell'incredibile e indimenticabile traversata iniziata a Trieste.
Di tutto questo girovagare, animato da ideali minimi e chiari, e degli incontri che ne sono derivati con un mondo di personaggi autentici e di territori strani e meravigliosi, Rumiz dà conto in uno stile tanto essenziale quanto capace di tradurci all'essenza delle cose - e delle vite - incrociate.
Rumiz autografa 'Appia' per Il Bicicletterario



 Il 24 settembre, noi de Il Bicicletterario lo incontrammo proprio in occasione della serata di presentazione per Appia al Teatro Romano dell'antica Minturnae, dove poche settimane dopo avremmo introdotto ufficialmente la terza edizione del nostro Premio Letterario, nacque allora l'idea di un suo contributo a questa avventura cicloletteraria: accettò di buon grado. Condividiamo con tutti voi quanto ha voluto dedicarci, colmi di ammirazione e riconoscenza:


I nomadi delle grandi pianure si facevano seppellire con il loro cavallo. Io lo farò con la mia bici. Quella vecchia, che non ho più. Quella del viaggio a Istanbul, alla fine del quale il Sole sorse come una cotogna e il gong della Luna svegliò i minareti acquattati come ramarri sulla sponda dell'Asia. Ancora oggi, dopo tanti anni ancora non so dire perché l’ho lasciata per una più lucida e veloce. Mi ci arrovello e non ho risposte. So solo che più passa il tempo e più mi manca il suo affusto da contadina, forte come un cavallo della steppa, il suo colore rosa-confetto, e una piccola macchia di ruggine sulla schiena.

Quando la montavo mi invadeva una calma immensa, ero libero e leggero; insieme pascolavamo altopiani e tornavamo con la Luna, furtivi come innamorati, le sacche cariche di mele selvatiche, portandoci dietro una scia di profumo. Che meravigliose solitudini, con lei. Non ho mai più rivissuto quei silenzi condivisi. Certo, potrei andarla a riprendere, ripulirla, ungerne la catena e ripartire. So anche dov’è, in quale sottoscala, e a volte vado a vederla, di nascosto, senza che lei lo sappia. Potrei. Da allora, credo, nessun altro l’ha toccata più, e anche se così non fosse che importa. Preferisco lasciarla così, con le sue lucenti ragnatele d'argento.

E' passato troppo tempo, e io non sono più lo stesso. C'è un proverbio d'Oriente che dice: non guardare mai la riva che lasci. Ho cambiato vita. Ma non è solo questo. E' che le bici hanno un orgoglio bestiale: se una volta le abbandoni ti rifiutano, ti lasciano per strada, s’impuntano come muli alla prima salita. Così aspetto a salirci sopra, aspetto fino all'ultimo. Perché di una cosa sono certo: la soglia ultima la passerò con lei, con il più leggero dei colpi di pedali, imbroccando un rapporto giusto come uno sposalizio. Il più perfetto della nostra vita.

Dopo la mitica traversata dei Balcani, l'avevo ribattezzata Emina, in memoria di una delle più belle poesie della vecchia Jugoslavia, sentita un'indimenticabile sera di giugno dalle parti di Novi Sad. E' di Aleks Šantić e amo mormorarla in lingua originale. Questa la mia miserabile traduzione. Va assaporata lasciando che le pause, nei momenti giusti, moltiplichino l'energia segreta delle parole. In fondo anche nelle bici, le soste sono il sale del viaggio.

“La notte scorsa, tornando dal tiepido hamam / son passato accanto al giardino del vecchio imam / e lì tra le piante, all'ombra di un gelsomino / lì, con un vaso tra le mani, stava Emina / Che bellezza! E sulla mia fede io giuro / che lei non dovrebbe abbassare gli occhi nemmeno davanti a un sultano / Ah come essa cammina e muove le spalle / Il sortilegio di un hodja non potrebbe toccarla / Le dico buongiorno, ma ve lo giuro / la bella Emina non ha voluto ascoltare / il suo vaso d'argento aveva riempito d'acqua / e nel giardino innaffiava le rose / e quando il vento ha soffiato sulle sue spalle / i capelli hanno liberato il profumo di giacinto blu / facendomi girare la testa / Ero lì e lì per perdermi, e lo giuro sulla mia fede / la bella Emina non venne verso di me / mi lanciò solo uno sguardo severo / e ignorò, la crudele, che io ne sarei morto”.

Conclude Šantić: “Il vecchio poeta è morto, Emina è morta / il giardino del gelsomino è abbandonato / il vaso è rotto, i fiori appassiti / ma la canzone di Emina non morirà mai”. Spesso penso che quel mio cavallo di ferro mi ha fatto sfiorare l’eterno.







Esperto del tema delle Heimat e delle identità in Italia e in Europa, Paolo Rumiz dal 1986 segue gli eventi dell’area balcanico-danubiana. Nel 2001 invece segue, prima da Islamabad e poi da Kabul, l'attacco statunitense all'Afghanistan. Vince il premio Hemingway nel 1993 per i suoi servizi dalla Bosnia e il premio Max David nel 1994 come migliore inviato italiano dell’anno.

Ha pubblicato, tra l’altro, Danubio. Storie di una nuova Europa (1990), Vento di terra (1994), Maschere per un massacro (1996), La linea dei mirtilli (1993), La secessione leggera (2001), È Oriente (2003), Gerusalemme perduta (2005), La leggenda dei monti naviganti (2007), Annibale. Un viaggio (2008), L'Italia in seconda classe, con i disegni di Altan e una Premessa del misterioso 740 (2009), La cotogna di Istanbul (2010), Il bene ostinato (2011), A piedi (2012), Trans Europa Express (2012), Morimondo (2013) e nella collana digitale 'Zoom' Maledetta Cina (2012) e Il cappottone di Antonio Pitacco (2012). Del 2014 è Come cavalli che dormoni in piedi; del 2016 Appia e Dal libro dell'esodo (con Cécile Kyenge).
Quasi tutti i titoli di Paolo Rumiz sono pubblicati in Italia da Feltrinelli.
 

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